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Israele, Hamas e il rischio delle narrazioni sbilanciate

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Foto di hosny salah da Pixabay

E’ un conflitto che non ammette semplificazioni quello israelo-palestinese, tra i più longevi e complessi della storia contemporanea. Ridurlo a uno scontro tra “aggressore e vittima”, o viceversa, è un errore che molti — seppur in buona fede — commettono, contribuendo così a una narrazione polarizzata che impedisce ogni reale comprensione.

Negli ultimi mesi, la guerra tra Israele e Hamas ha assunto toni sempre più drammatici, con un’escalation iniziata il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti sul territorio israeliano, causando oltre 1.200 vittime, tra cui civili e bambini. Israele ha risposto con una campagna militare su larga scala su Gaza, provocando migliaia di morti, sopratutto tra donne e bambini e una crisi umanitaria devastante, come ampiamente documentato da fonti come Human Rights Watch, Amnesty International e OCHA (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).

Se è giusto — anzi, doveroso — condannare l’attacco terroristico di Hamas e riconoscere la sua natura fondamentalista e violenta, è altrettanto importante interrogarsi sulle responsabilità dello Stato israeliano, non solo in termini di reazione militare, ma anche di scelte politiche pregresse.

Israele e la responsabilità del potere

Lo Stato di Israele è una democrazia, dotata di un esercito tecnologicamente avanzato e sostenuta da alleanze strategiche (prima fra tutte quella con gli Stati Uniti). Questa posizione privilegiata conferisce a Israele un potere che non può essere ignorato. 

Come ha osservato Gideon Levy, giornalista di Haaretz.

Il vero test morale di una democrazia è il modo in cui tratta chi non ha voce, chi è sotto il suo controllo.

Levy è da anni una voce critica contro l’occupazione israeliana, pur rimanendo fermamente contrario ad Hamas.

Secondo B’Tselem, ONG israeliana per i diritti umani, la politica di espansione delle colonie nei territori occupati, la demolizione sistematica di case palestinesi e il blocco su Gaza — attivo dal 2007 — costituiscono una forma di punizione collettiva che alimenta tensione e disperazione. Anche Amos Oz, uno dei più noti scrittori e intellettuali israeliani, ha detto: 

Essere amici di Israele non significa difenderne ogni azione, ma criticarne gli errori per il bene del suo futuro.

Hamas non rappresenta i palestinesi

Hamas, riconosciuta come organizzazione terroristica da UE, USA e ONU, ha un’agenda ideologica che include la distruzione dello Stato di Israele. È misogina, omofoba, autoritaria e agisce senza alcun riguardo per la vita dei civili — nemmeno quella dei palestinesi stessi. 

Parliamo di un’organizzazione terrorista dichiaratamente genocida, fondata su una cultura della morte e del martirio. Il massacro del 7 ottobre non è un’anomalia, ma la manifestazione esplicita di un progetto ideologico: ripetere quell’attacco “ancora e ancora”, come affermato dagli stessi leader di Hamas. 

Se non ci sono stati centomila morti israeliani è solo per incapacità operativa, non per mancanza di volontà. 

A ciò si aggiunge il ruolo ambiguo del Qatar, che ospita e finanzia Hamas, promuovendo un’agenda islamista radicale troppo spesso ignorata nei dibattiti occidentali. Così come viene ignorato il rifiuto di Hamas di arrendersi, di liberare gli ostaggi, di deporre le armi. 

È questo il nodo centrale: finché Hamas trascinerà la sua stessa popolazione nel baratro, rifiutando ogni compromesso, non ci sarà fine alla guerra.

Bisogna riconoscere che Hamas ha scatenato questa guerra con un attacco barbaro, è Hamas che continua a usare i civili come scudi umani, è Hamas che rifiuta di arrendersi, di liberare gli ostaggi, di lasciare spazio a un futuro diverso. La pressione dell’opinione pubblica dovrebbe concentrarsi anche su questo punto. Dovrebbe colpire chi ha il potere di fermare subito la guerra: Hamas, il Qatar che lo finanzia e lo ospita, e l’Iran che lo arma. Se davvero si volesse salvare Gaza, bisognerebbe chiedere ad Hamas di arrendersi, di deporre le armi e lasciare la gestione del territorio a una coalizione internazionale e all’Autorità Palestinese.

Troppo spesso, magari anche leggendo questo articolo, ci si ferma a una falsa dicotomia: se critichi Hamas allora “difendi tutto quello che fa Israele”, o viceversa.

Non è così. Non sono il primo e neanche l’ultimo a volere uno Stato palestinese, forte, libero, democratico, che viva accanto a Israele e non contro Israele. Ma questo non potrà mai nascere sotto la tirannia di Hamas, né con il sostegno di regimi che alimentano l’odio per convenienza geopolitica.

E purtroppo, spesso non si riesce a vedere tutto questo perché c’è un pregiudizio antisemita di fondo, diffuso e abilmente alimentato, che offusca la capacità di leggere il conflitto per quello che è. Anche in buona fede, si finisce per adottare una narrazione falsata, dove Israele è sempre e solo il carnefice e tutto il resto scompare, inclusi gli ostaggi.

Tuttavia, dall’altro lato, equiparare Hamas all’intero popolo palestinese è fuorviante e pericoloso. Come ha scritto Ilan Pappé, storico israeliano autore de La pulizia etnica della Palestina, gran parte della popolazione palestinese è ostaggio di due poteri oppressivi: da un lato l’occupazione militare e il controllo israeliano, dall’altro la repressione sociale, politica e religiosa di Hamas. 

Pensare che la resa di Hamas porterebbe automaticamente alla pace è illusorio, se non si affrontano le radici profonde dell’ingiustizia.

L’equivoco sull’antisemitismo

Uno dei rischi più frequenti nel dibattito su Israele è la sovrapposizione tra critica politica e antisemitismo. È vero che alcune frange estremiste strumentalizzano il conflitto per veicolare odio antiebraico — e questo va condannato senza esitazione. Ma è altrettanto vero che accusare di antisemitismo ogni voce critica nei confronti della politica israeliana è un meccanismo di delegittimazione, che spesso serve a zittire il dissenso.

Come ha ricordato il senatore americano di origine ebraica Bernie Sanders:

Essere ebrei non significa appoggiare ogni decisione del governo israeliano. Anzi, proprio in nome dei valori ebraici di giustizia e umanità, dobbiamo opporci quando uno Stato compie atti ingiusti. La distinzione tra Israele e l’identità ebraica non è solo corretta: è necessaria!

Una critica legittima, non un capro espiatorio

Israele ha tutto il diritto di difendersi, ma non l’impunità. Criticarne le politiche pur senza negare le responsabilità di Hamas, è una forma di partecipazione democratica, non di odio ideologico. E sebbene ogni Stato abbia diritto alla sicurezza, nessuno Stato può pretendere di essere al di sopra del diritto internazionale.

Il rischio che stiamo correndo oggi è duplice: da un lato c’è chi usa Hamas per giustificare ogni atto dell’esercito israeliano; dall’altro, chi assolve Hamas pur di mantenere una narrazione “resistente”. Entrambe le posizioni sono fallaci, e entrambe fanno il gioco della guerra.

Come scriveva lo storico Tony Judt:

Il problema non è Israele in sé, ma l’idea che esso sia al di fuori della critica. Nessuna democrazia dovrebbe esserlo.

Il paragone storico e la realtà militare

C’è chi oggi chiede un cessate il fuoco immediato da parte di Israele. Ma cosa significa chiedere la fine della guerra quando l’aggressore non si è arreso, anzi, rilancia la sua minaccia? 

Il parallelo con la Seconda guerra mondiale è calzante: quando gli Alleati combattevano i nazifascisti, non si fermarono davanti alle atrocità. Il loro obiettivo era chiaro: fermare chi aveva scatenato il conflitto. I morti civili tedeschi furono milioni, ma nessuno parlò di proporre un “ultimo giorno” per la Germania se Hitler non avesse ceduto.

Allo stesso modo, se Israele volesse davvero sterminare due milioni di persone, lo avrebbe già fatto. Non lo fa, e questo — sebbene non assolva da ogni responsabilità — deve pur avere un peso nella riflessione collettiva

Israele è una democrazia imperfetta, ma resta una democrazia: a Tel Aviv e Gerusalemme, migliaia di cittadini protestano contro il governo anche durante la guerra. A Gaza, chi contesta Hamas rischia la tortura e la morte — e i fatti lo confermano.

Due pesi, due misure

Chi mi conosce sa quanto io sia critico nei confronti di Israele, ma per onestà intellettuale è doveroso fare questo tipo di considerazioni. La tendenza preoccupante è quella di trattare Israele con un metro che non si applica a nessun altro Stato. Nessuno se la prende con i russi che si oppongono a Putin, o con i turchi che difendono i curdi. Perché con gli israeliani sì? Quando si confonde la condanna a un governo con il disprezzo per un intero popolo, non siamo più nella critica: siamo nel pregiudizio.

Lo storico Tony Judt lo scrisse già nel 2003: 

Uno Stato ebraico che pretende immunità dalla critica sta costruendo la propria sconfitta. Non possiamo accettare che la critica a Israele diventi una nuova forma di legittimazione dell’antisemitismo.

È doveroso denunciare ogni crimine, ogni atto ingiusto, da qualunque parte provenga. Ma servono rigore e onestà intellettuale. Criticare Netanyahu e trattarlo da que sadico assassino che è, non può voler dire assolvere Hamas. E difendere i diritti dei palestinesi non implica negare quelli degli israeliani. Ma in Europa vige il silenzio, un silenzio complice che sembra sollevare Israele da ogni responsabilità.

Come ricorda Amos Oz in Contro il fanatismo:

La soluzione non è mai nel fanatismo contrario, ma nella tenace costruzione del dialogo. Che deve partire dal riconoscimento di tutte le responsabilità, e dalla capacità di guardare anche ciò che è scomodo vedere.

Tra semplificazioni da social network e slogan, tornare alla complessità non è solo un atto intellettuale, ma etico. Il conflitto israelo-palestinese ha bisogno di analisi, di empatia per le vittime da entrambe le parti e di una politica estera capace di guardare oltre le alleanze cieche.

Attenzione!

Se davvero vogliamo essere veramente “umani”, allora dobbiamo guardare tutto l’insieme, anche ciò che è scomodo, anche ciò che non rientra nello schema facile del più forte contro il più debole. Perché la verità non sta nella simmetria, ma nel coraggio di vedere la realtà per intero.

Criticare Israele, denunciare Hamas, difendere i diritti umani, combattere l’antisemitismo e sostenere il popolo palestinese non sono posizioni in conflitto. Sono, anzi, parti di un unico discorso coerente e necessario: quello della giustizia, della verità e della pace.